Pubblichiamo l’intervista a cura di Alessandro Rondoni a mons. Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei latini, realizzata in occasione dell’incontro “Chiedete pace per Gerusalemme”, svoltosi insieme all’arcivescovo card. Matteo Zuppi nella basilica di Santo Stefano a Bologna durante la Quaresima
Padre Pizzaballa, come sta la comunità cristiana in Terrasanta?
È una comunità piccola nei numeri, vivace nonostante i tanti problemi e conflitti di ogni genere, le divisioni fra Giordania, Israele e Palestina e così via. Non è una comunità ripiegata su di sé ma è una comunità in attesa, come tutte le comunità religiose, che un giorno si possa parlare di Terrasanta senza parlare necessariamente di conflitto o di tensioni.
Non solo Israele, ma anche Palestina, Giordania e Cipro: un territorio vasto, con culture e tradizioni diverse. Come opera la Chiesa e come fa unità?
Fare unità è la sfida principale, perché i nostri confini tra Israele, Giordania, Palestina e anche con Cipro non sono confini semplici. Dopo generazioni in cui le comunità non riescono a incontrarsi il rischio è quello di andare ciascuno per conto suo. Però, soprattutto in questo cammino sinodale che abbiamo cominciato a fare insieme, riusciamo a trovare anche degli elementi comuni.
Il Patriarca deve visitare, come arcivescovo, anche le comunità. Com’è la vita nelle varie realtà in questo momento?
Diciamo che è una grande consolazione. Perché quando stai in ufficio vedi solo i problemi, le crisi e le difficoltà, mentre quando vai nelle parrocchie e nelle comunità di vario genere, religiose e non, vedi tanta vitalità, tanta voglia di vita, che non sempre trova degli sbocchi giusti (e questo è anche compito del pastore, dare delle indicazioni) però è una grande consolazione.
Gerusalemme è la città delle tre religioni. In questo momento gli uomini di fede, i costruttori della pace, che messaggio danno e che gesti avete compiuto anche a livello ecumenico e con le altre religioni?
Se devo essere sincero, non è che facciamo molte cose. Con la scusa della pandemia ci siamo incontrati poco, forse, dovremmo incontrarci di più. E dovremmo parlare di più della vita in comune che abbiamo, senza parlare di argomenti eterei, ‘campati in aria’. Dobbiamo fare un cammino insieme. Devo dire che la nuova generazione dei leader religiosi è più attenta a questo. Ancora non abbiamo maturato bene le cose da fare, però vedo in prospettiva una generazione nuova di leader religiosi che ha voglia di cambiare linguaggio.
Non si può non invocare la pace, come chiede anche papa Francesco. Come è vista dalla Terrasanta la guerra in Ucraina? Senza dimenticare il conflitto Israele- palestinese...
È chiaro che la guerra in Ucraina ha lasciato tutti un po’ sorpresi. L’Europa che dava sempre lezioni di pace e di dialogo… ora nel cuore dell’Europa c’è un conflitto così grande. La prospettiva dalla Terrasanta è una prospettiva non europea. È percepita innanzitutto psicologicamente come una cosa lontana. È vero che Israele è preoccupato perché la Russia confina con Israele in Siria, e poi c’è soprattutto da parte dei palestinesi un po’ di fastidio, perché si percepisce molto chiaramente che in Europa ci sono due pesi e due misure: se qualcosa accade in Ucraina, tutti ne parlano, ma se accade in Palestina nessuno dice nulla.
Gerusalemme è un luogo simbolo, con quali occhi si guardano là le vicende che accadono oggi?
Bisogna sempre ricordare e ripartire dalla vocazione della città, la Gerusalemme celeste con cui si conclude la Bibbia con la storia della salvezza. Ma anche quella terrena, città della luce pasquale donata per il mondo, delle porte sempre aperte, dove sgorga un fiume d’acqua, dove non c’è distinzione fra un popolo e l’altro, città delle tre religioni monoteiste. Non dobbiamo dimenticare la sua vocazione. Poi c’è la realtà con le distinzioni, divisioni, ci sono ebrei, cristiani, musulmani e tante altre etnie, ci sta un po' di tutto. Gerusalemme porta con sé questo, anche in modo ferito, capendo che il tempo del cambiamento è un tempo lungo, fatto di piccoli passi. Questo ho capito nei trentadue anni che sono lì, che il tempo ha un percorso, non sta a noi raccogliere il frutto ma seminare, con la coscienza che siamo tutti fratelli, che ciò che nella realtà ha diviso i popoli è vinto da questa consapevolezza che entra nel cuore delle persone.
Questi due anni di pandemia hanno segnato anche la difficoltà di viaggiare, di venire là, di fare pellegrinaggi in Terrasanta. Com’è la situazione adesso, si può riprendere con speranza a fare pellegrinaggi?
Siamo stati due anni senza nessun pellegrino perché i confini erano ermeticamente chiusi, nonostante intifade e guerre, nel passato, c’erano sempre pellegrini. Adesso però, grazie a Dio, siamo alle spalle delle grandi ondate della pandemia e i pellegrini cominciano a tornare. Le città, la città di Gerusalemme soprattutto, e le sue vie, cominciano a riattivare le dinamiche di vita con i pellegrini.
Allora questo è un invito anche come augurio di pace…
Sì, è un augurio di pace perché la presenza dei pellegrini è sempre una presenza di pace.
Qual è l’annuncio della Pasqua di quest’anno vissuta da Gerusalemme?
La Pasqua a Gerusalemme è un unicum e sarebbe bene poterla fare là per i pellegrini bolognesi. La Pasqua comunque è un annuncio di vita, che è, soprattutto in questo momento, quello di cui abbiamo bisogno. Della vita e dell’amore che nonostante tutto hanno l’ultima parola.